Ciò che ho visto in te, è quello che ho imparato a pensare di me: il ruolo delle credenze di base.
- Francesco Lobriglio
- 2 mag
- Tempo di lettura: 30 min

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🧭 Indice dell'articolo
Introduzione alle credenze di base
Le credenze di base (o core beliefs) sono convinzioni profonde e radicate che l’individuo ha su di sé, sugli altri e sul mondo. In pratica, costituiscono delle “verità” personali assolute che ciascuno di noi ha interiorizzato nel tempo riguardo al proprio valore, alle proprie capacità e alla propria amabilità. Tali credenze sono spesso implicite e date per scontate, ma esercitano un forte influsso nel filtrare l’interpretazione delle esperienze quotidiane. Le credenze di base possono essere sia positive sia negative; quando sono negative tendono a generare vulnerabilità emotiva e sofferenza psicologica, poiché portano l’individuo a interpretare sé stesso e gli eventi in modo distorto - ovvero non realistico. In ambito di psicologia cognitiva, Aaron Beck (fondatore della terapia cognitiva) ha evidenziato che le credenze di base negative relative a sé ruotano attorno a pochi temi fondamentali. In particolare, Beck identificò tre categorie principali:
Credenze di non amabilità – la convinzione di non essere degni d’amore o intrinsecamente non amabili (es. “sono destinato a essere rifiutato, nessuno potrebbe amarmi”).
Credenze di non valore (indegnità) – la convinzione di non avere valore personale, di essere indegni o “sbagliati” come persone (es. “non valgo nulla, merito critiche o disprezzo”).
Credenze di inadeguatezza – la convinzione di essere incapaci, difettosi o deboli, cioè di non essere all’altezza delle richieste della vita (es. “sono un incapace, c’è qualcosa di sbagliato in me, non ce la farò”).
Queste credenze nucleari su di sé sono tipicamente globali e rigide: il soggetto le esprime spesso in forma assoluta (“sono sempre un fallimento”, “non sarò mai amato da nessuno”) e tende a considerarle fatti oggettivi anziché opinioni modificabili. Di conseguenza, esse possono alimentare circoli viziosi: la persona interpreta le esperienze in modo coerente con la credenza di base e adotta comportamenti disfunzionali che paradossalmente finiscono per rinforzarla. Ad esempio, chi crede di essere un incapace eviterà le sfide per paura di fallire, ma così facendo confermerà la propria mancanza di successo, mantenendo viva la convinzione di inadeguatezza. In sintesi, le credenze di base negative rappresentano il nucleo della visione di sé che troviamo alla base di molti disturbi emotivi e comportamentali in terapia cognitiva.
Origini e formazione
Le credenze di base su di sé si sviluppano soprattutto nelle prime fasi di vita, in risposta alle esperienze relazionali significative, in primis quelle con le figure genitoriali. Il bambino interiorizza, attraverso ripetute interazioni, un modello di sé che riflette come si sente visto e accettato dai propri caregiver. Come osservava Bowlby, una caratteristica fondamentale del modello operativo interno del Sé è “il concetto di quanto si sia accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento”. In altre parole, se durante l’infanzia il bambino fa esperienza di cure amorevoli, presenza e sostegno, tenderà a costruire dentro di sé l’idea di essere degno di amore e di attenzioni. Viceversa, se le figure di riferimento risultano assenti, rifiutanti o ipercritiche, il bambino potrà sviluppare un’idea di sé come non degno di essere amato, inadeguato o “cattivo”. Queste valutazioni precoci di sé divengono col tempo credenze di base stabili.
Un ruolo cruciale è giocato quindi dallo stile genitoriale e dalla qualità della relazione di attaccamento. Ambienti familiari caratterizzati da affetto incondizionato, validazione e sicurezza favoriscono l’emergere di credenze positive su di sé (es. “sono amabile, sono capace”); al contrario, contesti segnati da critiche, rifiuto emotivo o aspettative eccessivamente punitive contribuiscono alla formazione di credenze di base negative. Non è necessario un singolo trauma acuto perché si instaurino queste convinzioni: più spesso è l’effetto cumulativo di piccole interazioni quotidiane negative a plasmare gradualmente la visione di sé del bambino. Non sono solo gli eventi di vita dolorosi ad essere predisponenti, ma soprattutto come sono stati vissuti dall’individuo e come queste esperienze portino, nel corso dello sviluppo, al cristallizzarsi di idee disfunzionali su di sé, ossia le credenze di base. In generale, se un bambino cresce in un clima costantemente critico e povero di calore emotivo, interiorizzerà un’idea di sé negativo: ad esempio potrà convincersi di “essere una persona inadeguata” o di “non meritare affetto”.
Un concetto importante legato a questo processo è quello di “genitore interiorizzato”. Il termine indica che il bambino assorbe dentro di sé atteggiamenti, messaggi e schemi relazionali dei genitori, che diventeranno parte del suo dialogo interno in età adulta. In pratica, la “voce” con cui l’adulto si giudica e si tratta deriva spesso da quella con cui è stato trattato dai genitori. Se un genitore è stato ipercritico o svalutante, il figlio potrà sviluppare un severo critico interiore che gli ripete gli stessi moniti (“Non vali niente”, “Devi fare di più, altrimenti sei un fallimento”). Questa parte interiorizzata viene descritta nella Schema Therapy come Modalità del Genitore Disfunzionale e può assumere forme diverse, ad esempio: un “genitore esigente” interno che spinge a standard irrealistici, oppure un “genitore punitivo” interno che colpevolizza e disprezza il Sé. In entrambi i casi, l’effetto è di minare l’autostima: la persona impara a valutarsi pericolosamente attraverso gli occhi critici dei propri genitori interiorizzati, provando spesso vergogna e senso di colpa.
Da queste dinamiche relazionali precoci derivano dunque le credenze di base maladattive. Un bambino al quale è stato comunicato (esplicitamente o implicitamente) di “non andare mai bene”, magari perché i genitori avevano aspettative perfezionistiche o offrivano amore condizionato ai risultati, sarà portato a credere di dover essere perfetto per valere qualcosa. Per esempio, ottenere ottimi voti a scuola e avere un genitore che comunque non si mostra soddisfatto può indurre il bambino a sviluppare l’aspettativa di non fare mai abbastanza, consolidando la credenza di base di essere sempre in difetto o insufficiente nonostante il suo impegno. Analogamente, una cronica mancanza di rispecchiamento dei bisogni emotivi del bambino – ad esempio genitori freddi o incapaci di offrire supporto affettivo – può radicare nel piccolo la convinzione di “non meritare attenzione e riconoscimento”, alimentando un sentimento di indegnità personale. In sintesi, la qualità dell’accudimento e dell’attaccamento plasma il nucleo dell’autopercezione: un genitore sufficientemente supportivo fa sentire il figlio accettato e amabile, mentre un genitore rifiutante o eccessivamente critico comunica al figlio il messaggio (spesso non intenzionale ma potente) che egli “non va bene così com’è”, favorendo lo sviluppo di credenze di base negative su di sé.
Classificazione moderna delle credenze di base
Le teorie cognitive classiche hanno identificato varie credenze di base maladattive, ma le moderne correnti di pensiero tendono a ricondurle a due grandi tipologie nucleari. In sostanza, la maggior parte delle credenze negative su di sé riflette o un senso di inadeguatezza oppure un senso di indegnità (non amabilità). La prima tipologia riguarda il sentirsi “non abbastanza” in termini di competenze, forza o successo personale; la seconda riguarda il sentirsi “non meritevoli” di amore, rispetto o considerazione da parte degli altri. Possiamo vedere queste due credenze come i nuclei tematici essenziali attorno a cui si organizzano le varianti specifiche.
Questa semplificazione a due temi deriva dall’osservazione che le categorie proposte da Beck in fondo si raggruppano in due domini: da un lato l’autostima di capacità (adeguatezza vs. inadeguatezza), dall’altro il valore personale e relazionale (amabilità e valore vs. indegnità). In effetti, le credenze di “non amabilità” e di “non valore” condividono un comune denominatore: un giudizio globale di indegnità personale, di non essere abbastanza “buoni” da meritare amore o approvazione. Spesso la credenza di indegnità può assumere la forma specifica di “non meritare di essere amato” oppure di “essere una persona cattiva/sbagliata” sul piano morale; in entrambi i casi il filone è quello della svalutazione di sé come individuo. Dall’altro lato, la credenza di inadeguatezza si manifesta con l’idea di non essere all’altezza sul piano delle abilità, dell’autonomia o della forza personale (es. “sono incapace, fragile, destinato a fallire”). Anche qui possono esservi sfumature: c’è chi si sente inadeguato intellettualmente (stupido, incompetente), chi socialmente (goffo, “strano”), chi nel controllo emotivo (debole, troppo sensibile) ecc., ma il nucleo resta la percezione di insufficienza.
Le ricerche attuali confermano che molti schemi disfunzionali di personalità si riconducono a queste due dimensioni di fondo. Ad esempio, negli studi sui pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo o disturbi di personalità, emergono frequentemente credenze centrali del tipo “sono inadeguato/impotente” e “sono indegno/non amabile”, spesso combinate a un senso di colpa per la propria presunta “cattiveria”. Allo stesso modo, Young nella Schema Therapy ha individuato diversi schemi maladattivi precoci, ma tra i più comuni trasversali a molti disturbi troviamo lo schema di Difettosità/Vergogna (che corrisponde al vissuto di indegnità e non amabilità) e lo schema di Fallimento (che corrisponde al vissuto di inadeguatezza rispetto a successi e competenze). Molti autori sottolineano dunque che, pur potendo esistere numerose credenze negative specifiche, queste spesso rappresentano variazioni sul tema di sentirsi “non abbastanza (competente)” o “non degno (di amore/valore)”. Questa prospettiva duale è utile in terapia perché aiuta a focalizzarsi sul nucleo centrale del sistema di convinzioni del paziente, senza perdersi nelle infinite possibili formulazioni superficiali. In altre parole, andando in profondità, il dialogo socratico con il paziente tende a rivelare uno di questi due messaggi di base: “c’è qualcosa di sbagliato in me (incompetente, incapace, difettoso)” oppure “c’è qualcosa di sbagliato di me (indegno, non meritevole di amore, da disprezzare)”. Identificare a quale dei due grandi filoni appartiene la credenza di base di un individuo è il primo passo per comprenderne a fondo il vissuto. I riferimenti scientifici contemporanei confermano questa dicotomia essenziale come fondamento concettuale per la formulazione del caso e l’impostazione del trattamento.
Va notato, infine, che alcune teorie hanno proposto ulteriori categorie (come, ad esempio, credenze di vulnerabilità o di pericolo legate all’ansia). Tuttavia, queste riguardano più che altro la visione del mondo (es. “il mondo è pericoloso, sono sempre in pericolo”) e non la valutazione di sé. Restando strettamente sul versante del Sé, l’asse inadeguatezza vs indegnità copre la stragrande maggioranza dei temi nucleari di autosvalutazione riscontrati nei pazienti.
Relazione tra le due credenze
Un quesito che ci si può porre è se un individuo sviluppi una sola credenza di base nucleare oppure se possa convivere con più credenze di base simultaneamente. La letteratura clinica suggerisce che, sebbene una persona possa avere diverse sfumature di pensieri negativi su di sé, in genere esiste un tema dominante che funge da fulcro centrale. Si parla di credenza “nucleare” proprio perché rappresenta il nucleo attorno a cui si organizzano le altre convinzioni interconnesse. Ad esempio, una stessa persona potrebbe percepirsi sia incapace sia indesiderabile, ma spesso una delle due convinzioni è più profonda e pervasiva, mentre l’altra è secondaria o conseguente.
In molti casi, infatti, le due credenze di indegnità e inadeguatezza coesistono e si alimentano a vicenda. Uno studio sui tratti della dipendenza affettiva indica che tali individui “si portano dentro dolorose credenze disfunzionali di scarso valore, incapacità e scarsa autonomia”, le quali si legano insieme nel determinare le loro difficoltà. In questa descrizione, la sensazione di scarso valore personale (indegnità) convive con quella di incapacità (inadeguatezza) e con l’idea di non saper far fronte da soli (impotenza/autonomia frustrata). Ciò dimostra che più credenze negative possono essere presenti contemporaneamente nello schema di sé di una persona. Allo stesso modo, un individuo con un attaccamento insicuro evitante può ritenersi non meritevole d’amore e al contempo pensare di dover “cavarsela da solo” perché non si fida delle proprie figure di riferimento – un mix di indegnità e inadeguatezza che spesso osserviamo nella pratica clinica.
Tuttavia, pur potendo coesistere, in genere una credenza tende a diventare preminente. È quella convinzione che si attiva con maggior facilità di fronte agli eventi stressanti, che ricorre più spesso nel dialogo interiore automatico e che provoca le emozioni più intense. Possiamo immaginare la credenza nucleare come il pilastro portante dello schema cognitivo di una persona, mentre eventuali altre credenze negative fungono da pilastri secondari di sostegno. Ad esempio, un soggetto con credenza nucleare di inadeguatezza (“sono un fallimento”) potrebbe secondariamente pensare anche “e quindi nessuno potrà amarmi”, ma il cuore del suo problema resta il sentirsi incapace; viceversa, un soggetto con credenza nucleare di indegnità (“non merito amore”) potrebbe anche pensare “forse non valgo nulla perché non ho abbastanza successi”, ma in fondo il dolore principale riguarda il sentirsi rifiutato e non accettato.
In letteratura, Beck e collaboratori hanno sottolineato l’importanza di identificare il livello più profondo nel sistema di credenze, quello “più nucleare”, per comprendere davvero il funzionamento interno del paziente. In termini pratici, ciò significa che in terapia è utile cercare di individuare quale delle due grandi credenze (inadeguatezza vs indegnità) rappresenti il nodo centrale per quella persona. Una volta chiarito ciò, infatti, diventa possibile formulare un intervento mirato e personalizzato. Nel resto dell’approfondimento, assumeremo dunque che ogni individuo tenda ad avere una credenza di base primaria predominante, e analizzeremo come cambia il vissuto a seconda che questo nucleo sia orientato all’inadeguatezza oppure all’indegnità. Va comunque ricordato che la realtà clinica è complessa e sfumata: alcune persone, specie in contesti di trauma relazionale grave o di disturbi di personalità, possono presentare entrambi i nuclei negativi in forma significativa. In quei casi, il lavoro terapeutico dovrà abbracciare entrambi gli aspetti. Nella maggior parte delle situazioni, però, uno dei due poli prevale sull’altro come fonte principale di sofferenza.
Vissuto con credenza di inadeguatezza vs. vissuto con credenza di indegnità: In termini di esperienza soggettiva, la differenza tra i due nuclei si riflette nelle emozioni dominanti e nelle sensibilità personali: chi si sente inadeguato è particolarmente vulnerabile alla vergogna da prestazione, al senso di inferiorità e al timore del fallimento; chi si sente indegno/non amabile è invece più esposto alla vergogna relazionale, al senso di rifiuto e al timore dell’abbandono. La persona con credenza di inadeguatezza teme soprattutto di essere giudicata incompetente o debole; tende quindi a monitorare continuamente le proprie performance, a confrontarsi con gli altri e a provare ansia nelle situazioni di valutazione (esami, colloqui, responsabilità lavorative). D’altro canto, la persona con credenza di indegnità teme di essere rifiutata per quello che è; tende a monitorare i segnali di approvazione o disapprovazione negli altri, è ipersensibile al rifiuto e può provare intensa tristezza o rabbia quando si sente ignorata o non amata. Entrambe le credenze portano con sé vergogna, ma di tipo diverso: l’“inadeguato” prova vergogna di sé quando sbaglia o non riesce in qualcosa (vergogna di incapacità), l’“indegno” prova vergogna nell’essere visto profondamente, convinto che se gli altri lo conoscessero davvero lo disprezzerebbero (vergogna di sé come persona). Queste differenze diventano particolarmente evidenti nell’ambito delle relazioni intime, come vedremo nel prossimo paragrafo.
Come si manifestano nelle relazioni
Le credenze di base negative influenzano in modo significativo le dinamiche delle relazioni sentimentali, poiché guidano sia l’interpretazione dei comportamenti del partner sia le reazioni emotive e comportamentali della persona. Per illustrare la differenza tra la credenza di inadeguatezza e quella di indegnità, consideriamo uno stesso scenario relazionale con esiti diversi:
Scenario: Immaginiamo che Alice stia frequentando Marco da alcuni mesi. Una sera Alice invia un messaggio affettuoso a Marco, ma lui risponde in modo molto breve e freddo dopo parecchie ore. Alice percepisce una distanza nel comportamento di Marco.
Se Alice ha una credenza di base di inadeguatezza, interpreterà probabilmente la situazione come un suo errore o mancanza. Il suo dialogo interno potrebbe suonare così: “Ho sbagliato qualcosa, forse l’ho annoiato con il mio messaggio… Sono così stupida, non sono capace di mantenerlo interessato”. In sostanza, tenderà a dare la colpa a sé stessa, confermando l’idea di non essere abbastanza brava come partner. Emotivamente proverà ansia (timore di aver compromesso la relazione) e vergogna (imbarazzo per la propria presunta inadeguatezza). Di conseguenza, metterà in atto comportamenti compensatori: potrebbe chiedere scusa eccessivamente a Marco per essersi fatta viva, oppure cercare freneticamente di rimediare – ad esempio inviandogli un altro messaggio ancora più premuroso, offrendosi di aiutarlo in qualcosa, o cercando modi per dimostrarsi “migliore”. In alternativa, se prevale la vergogna, Alice potrebbe chiudersi in silenzio e allontanarsi, evitando ulteriori contatti per paura di “sbagliare di nuovo”. In ogni caso, la sua reazione è guidata dal panico di non essere all’altezza: sente di dover fare di più o ritirarsi, perché in cuor suo crede di non andare bene così com’è. Questa modalità corrisponde a ciò che spesso osserviamo in chi ha credenze di inadeguatezza: un mix di perfezionismo, richiesta continua di rassicurazioni sulle proprie performance nella relazione e tendenza ad evitare situazioni in cui potrebbe “fallire” come partner. Ad esempio, chi si sente inadeguato in amore potrebbe evitare di esprimere bisogni o emozioni per non essere giudicato debole, oppure potrebbe sforzarsi oltremodo di compiacere il partner in tutto, trascurando sé stesso, nel tentativo di essere considerato “sufficientemente bravo”. Se il partner esprime anche la minima insoddisfazione, scatta la convinzione: “Ecco, non sono capace di renderlo felice, sto fallendo”. Nel nostro scenario, Alice potrebbe pensare che la risposta fredda di Marco significhi che lei ha fallito nel sostenerlo o interessarlo; magari decide di preparargli una sorpresa elaborata il giorno dopo per “rimediare” e ottenere finalmente quel feedback positivo che plachi la propria insicurezza. Questo comportamento, tuttavia, può risultare eccessivo o fuori luogo, e paradossalmente potrebbe infastidire Marco – col rischio di confermare ad Alice la sensazione di aver sbagliato tutto. Si innesca così un ciclo disfunzionale: la credenza “sono inadeguata” porta Alice a iper-compensare o ad auto-svalutarsi, producendo tensione nella relazione e alimentando ulteriormente quella stessa credenza di base.
Se Alice ha una credenza di base di indegnità (non amabilità), la sua interpretazione sarà diversa. Di fronte al messaggio freddo di Marco, il suo pensiero automatico potrebbe essere: “Non ci tiene davvero a me… Ecco, sapevo che prima o poi mi avrebbe messo da parte. Probabilmente sta perdendo interesse perché in fondo non merito il suo amore”. In questo caso, Alice attribuisce il distacco di Marco a una mancanza di valore di lei come persona: leggere quella risposta tiepida conferma il timore “non sono abbastanza speciale/importante, quindi lui mi abbandonerà”. L’emozione prevalente sarà tristezza dolorosa (sentirsi rifiutata) mescolata a paura intensa dell’abbandono. È probabile anche la comparsa di gelosia o insicurezza: Alice potrebbe pensare che Marco dedichi attenzione a qualcun’altra “più meritevole” di lei. Di conseguenza, i comportamenti reattivi tenderanno alla protesta o all’aggancio: alcuni con credenza di indegnità diventano richiestivi e bisognosi, altri arrabbiati e accusatori, a seconda dello stile personale. Alice potrebbe, ad esempio, tempestare Marco di messaggi successivi chiedendo rassicurazioni (“Ti prego dimmi che va tutto bene tra noi… ce l’hai con me?”), oppure manifestare rabbia per mascherare la ferita (“Grazie per la considerazione… vedo che ti importa molto di me!”). In entrambi i casi, l’obiettivo implicito è testare il partner e ottenere conferma che non la lascerà – in pratica, Alice cerca disperatamente di contrastare la propria credenza “non sono degna d’amore” ottenendo prove d’amore dall’altro. Purtroppo, questo atteggiamento può generare tensioni: ad esempio, richieste di rassicurazione continue o scenate di gelosia possono fare sentire Marco soffocato o ingiustamente accusato, portandolo davvero a prendere le distanze. Si crea così un circolo vizioso relazionale tipico di chi si sente indegno: la paura dell’abbandono porta a comportamenti ansiosi (dipendenza, gelosia, controllo, ossessione per il rapporto) che finiscono per logorare la relazione e talvolta provocare proprio il distacco temuto. La letteratura descrive bene questo schema: nel disturbo dipendente di personalità o nella dipendenza affettiva, per esempio, coesistono credenze di scarso valore personale e paura estrema di perdere l’altro, che conducono a comportamenti sottomessi e iper-accondiscendenti, alla repressione dei propri bisogni e a un’angoscia abbandonica costante. La persona pensa “Senza di lui/lei non valgo nulla e la mia vita non ha senso”, e agisce di conseguenza mettendo il partner su un piedistallo e annullando sé stessa. Nel nostro scenario, Alice con credenza di indegnità potrebbe perdonare immediatamente la trascuratezza di Marco e cercare di non contrariarlo mai, accettando magari situazioni scomode pur di non perderlo, oppure, all’opposto, può diventare così insicura da mettere alla prova continuamente l’amore di Marco con domande e scenate. Entrambe le strategie, paradossalmente, rischiano di minare la salute del rapporto e di alimentare la convinzione iniziale di Alice di non meritare davvero l’amore del partner.
In definitiva, la credenza primaria di una persona plasma il suo stile relazionale. Chi si sente inadeguato in amore spesso adotta un ruolo accomodante, evita i conflitti per paura di sbagliare, cerca di “guadagnarsi” l’affetto dimostrando continuamente il proprio valore attraverso azioni e risultati (regali perfetti, prestazioni sessuali impeccabili, successo professionale da esibire al partner, ecc.). Internamente, vive con il costante timore di essere “scoperto” nelle proprie mancanze e di deludere l’altro, e questo può generare stress, ipercontrollo emotivo e difficoltà a essere spontaneo nella relazione. Chi invece si sente indegno/non amabile tende a essere più dipendente dall’altro sul piano emotivo: ricerca continue conferme di essere amato, è ipersensibile a ogni segnale di possibile rifiuto (leggendo magari eccessivamente tra le righe), e può oscillare tra sottomissione per paura di perdere il partner e scoppi di rabbia o disperazione se si sente trascurato. Spesso mette i bisogni del partner sempre davanti ai propri, in parte perché crede di non meritare considerazione, in parte per “farsi perdonare” la propria presenza nella vita dell’altro. Questo può portare a relazioni squilibrate, dove il partner con credenza di indegnità sopporta anche comportamenti scorretti pur di non rimanere solo, oppure suscita involontariamente nell’altro un senso di pressione e responsabilità eccessiva nel dover costantemente rassicurare.
Un aspetto interessante è che entrambe le credenze, se non riconosciute, possono diventare profezie che si autoavverano: la persona convinta di essere inadeguata potrebbe, per paura di fallire, evitare di investire pienamente nella relazione o tenere il partner a distanza di sicurezza; il partner potrebbe percepire questa “ritirata” come disinteresse o freddezza e allontanarsi davvero, confermando alla persona di “aver fallito” come compagno. Analogamente, la persona convinta di non meritare amore potrebbe tollerare comportamenti svalutanti da partner problematici o addirittura scegliere inconsciamente partner anaffettivi, finendo per essere davvero non amata, oppure potrebbe soffocare un partner affettuoso con la propria insicurezza fino a spingerlo a interrompere la relazione – realizzando così la sua paura. Studi nell’ambito delle implicit beliefs mostrano come le aspettative interne influenzino l’interpretazione del comportamento altrui e le reazioni conseguenti, distorcendo anche ciò che di positivo c’è. Ad esempio, se qualcuno ha la credenza “sono destinato ad essere abbandonato”, potrebbe ignorare o minimizzare le prove d’amore reali fornite dal partner e concentrarsi invece su piccoli segnali ambigui di distacco, confermando il proprio schema di abbandono.
In conclusione, credere di “non andare bene” in un modo o nell’altro incide profondamente sul modo in cui amiamo e ci lasciamo amare. La credenza di inadeguatezza porta a focalizzarsi su cosa si fa nella relazione (le prestazioni, i doveri, l’utilità che si ha per l’altro), mentre la credenza di indegnità porta a focalizzarsi su chi si è nella relazione (il proprio valore intrinseco agli occhi dell’altro). Entrambe possono compromettere la genuinità del legame: nel primo caso l’amore diventa condizionato ai risultati (“sarò amato solo se sarò perfetto”), nel secondo caso diventa costantemente messo in dubbio (“mi ami davvero? Ne sei sicuro?”). Riconoscere queste dinamiche è il primo passo per poterle cambiare, come vedremo nell’ultima sezione dedicata agli approcci terapeutici.
Approcci terapeutici
Lavorare in psicoterapia sulle credenze di base negative è fondamentale per ottenere cambiamenti duraturi nel funzionamento emotivo e relazionale del paziente. Diversi approcci integrati – dalla Terapia Cognitivo-Comportamentale standard alla Schema Therapy, fino a modelli più recenti come la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) – offrono strategie mirate per modificare queste convinzioni profonde e alleviare la sofferenza che ne deriva. Di seguito esamineremo alcune strategie d’intervento, con riferimenti a Schema Therapy e TMI, e illustreremo applicazioni cliniche pratiche.
Ristrutturazione cognitiva delle credenze di base (Approccio CBT) – Nel modello cognitivo standard, il terapeuta aiuta il paziente a identificare le proprie credenze di base disfunzionali e a metterle in discussione tramite un esame di realtà guidato. Questo processo spesso inizia collegando le emozioni negative intense ai pensieri caratteristici ad esse associati, fino a risalire alla credenza nucleare sottostante (ad es.: “Ero disperato quando il mio partner mi ha criticato perché in fondo ho pensato di non valere nulla”). Una volta portata alla luce la convinzione di base (“non valgo nulla”, “sono un fallimento”, “nessuno mi amerà mai”), la si sottopone a un’analisi critica: si esplorano le prove a favore e contro di essa, le origini di tale convinzione e la sua utilità attuale. Spesso si utilizzano tecniche come il dialogo socratico e il colloquio empirico: il terapeuta pone domande strategiche affinché il paziente valuti da sé la plausibilità universale della credenza. Ad esempio, di fronte alla credenza “sono incapace in tutto”, il terapeuta potrebbe chiedere di ricordare situazioni in cui la persona è stata capace o ha avuto successo, allo scopo di scalfire l’idea di incapacità totale. Si possono anche prescrivere esperimenti comportamentali: il paziente, guidato dal terapeuta, prova a mettersi in situazioni che contraddicono la credenza temuta (es. esporsi a un compito difficile ma affrontabile) per raccogliere nuove evidenze. Questo approccio attivo permette di “correggere” le credenze errate attraverso l’esperienza diretta. Ad esempio, un paziente convinto di “non essere amabile” potrebbe, su incoraggiamento del terapeuta, iniziare a condividere gradualmente i propri pensieri e sentimenti con persone fidate (anziché evitarle per vergogna) e scoprire così che viene accettato e supportato, contrariamente a quanto la sua credenza gli faceva temere.
Nel caso di credenze originate da esperienze traumatiche o altamente emotive, la CBT integra la ristrutturazione cognitiva con un’elaborazione emotiva del ricordo. Il paziente è guidato a rivisitare l’episodio chiave (ad esempio un abuso, o un episodio di grave umiliazione) e a ridefinire il significato che allora attribuì a sé stesso. Spesso, infatti, il bambino o l’adolescente in quelle circostanze dolorose arriva a conclusioni globali su di sé (“È colpa mia”, “sono sporco e cattivo”, “non valgo niente perché mio padre mi ha abbandonato”). Il lavoro terapeutico consiste nel far prendere prospettiva adulta su quei momenti e rielaborare la credenza associata: “All’epoca hai pensato di non meritare amore perché tuo padre se ne è andato, ma da adulto puoi vedere che la sua assenza parlava dei suoi limiti, non del tuo valore”. Come notano Pace e colleghi, per i traumi il trattamento include la ristrutturazione cognitiva ed emotiva di ciò che il paziente aveva pensato di sé stesso in quei momenti e delle emozioni provate. In pratica si separa il dato di realtà (es. “papà se n’è andato”) dall’interpretazione interna (es. “me ne sono andato perché tu non eri degno di essere amato”) e si costruisce una narrativa alternativa più sana (es. “mi hai lasciato perché avevi problemi tuoi; io, nonostante tutto, meritavo amore e cure, anche se tu non hai saputo darmele”).
Un altro strumento utile è far compilare al paziente un diario delle credenze, in cui annotare le situazioni quotidiane che attivano la credenza di base, il pensiero negativo specifico sorto in quel frangente e una reinterpretazione alternativa più realistica. Ad esempio, di fronte all’evento “il mio amico non mi ha invitato a uscire”, il paziente con credenza di indegnità potrebbe scrivere che il pensiero immediato è stato “non mi ha voluto perché non conto nulla per lui” e poi, guidato dal terapeuta, aggiungere una visione alternativa: “Probabilmente non mi ha invitato perché era un’uscita tra colleghi di lavoro in cui non c’entravo; questo non significa che non tenga a me come amico”. Con l’esercizio ripetuto, le credenze più equilibrate e funzionali possono iniziare a indebolire le vecchie convinzioni disfunzionali. Si mira a far evolvere le credenze di base da rigide e globali a più flessibili e aderenti alla realtà, come sottolinea la REBT: una credenza sana suonerebbe ad esempio “mi piacerebbe essere sempre all’altezza, ma se a volte fallisco non vuol dire che sono un incapace totale”. Questo spostamento cognitivo riduce drasticamente l’impatto emotivo negativo.
Schema Therapy e rielaborazione delle ferite originarie – La Schema Therapy di Jeffrey Young integra l’approccio cognitivo-comportamentale con tecniche esperienziali intense volte a modificare le credenze di base a un livello emotivo profondo. Nella Schema Therapy si concettualizzano le credenze di base come “schemi maladattivi precoci”, ovvero veri e propri temi emotivo-cognitivi nati da bisogni fondamentali frustrati nell’infanzia. Due esempi di schemi strettamente legati alle credenze di indegnità e inadeguatezza sono rispettivamente lo schema di Difettosità/Vergogna (sentirsi difettosi, indesiderabili, inferiori) e lo schema di Fallimento (sentirsi destinati a fallire, incapaci, inetti). Il trattamento schema-focused si articola in diverse fasi:
Valorizzazione emotiva del paziente e alleanza terapeutica reparenting: Il terapeuta offre fin da subito un clima di accettazione incondizionata e comprensione empatica verso il paziente, fungendo in qualche modo da “base sicura” correttiva. L’idea è che molte persone con credenze di indegnità o inadeguatezza non abbiano mai sperimentato una relazione in cui si sono sentite davvero al sicuro nel mostrare le proprie vulnerabilità. Il terapeuta, con un atteggiamento autentico e privo di giudizio, comunica al paziente che tutti i suoi aspetti – anche quelli di cui prova vergogna – possono essere accolti nella stanza di terapia. Questo approccio funge da antidoto relazionale alla credenza “non sono accettabile”: sessione dopo sessione, il paziente inizia a interiorizzare l’idea di poter esprimere sé stesso senza essere rifiutato. Come evidenziano Malentacchi e Rosin, la Schema Therapy, sostenuta da una forte validazione emotiva, aiuta i pazienti a sentire ed esprimere i propri bisogni in un contesto di sicurezza, riducendo così il senso di vergogna e l’ansia di rivelarsi. Questo è particolarmente importante per chi ha uno schema di Difettosità/Vergogna (indegnità): solo sperimentando l’accettazione rispettosa del terapeuta, il paziente può lentamente metterne in dubbio la convinzione di base “se mostro chi sono, sarò disprezzato”.
Tecniche esperienziali (Imagery Rescripting e Chairwork): Oltre al dialogo cognitivo, la Schema Therapy utilizza esercizi di immaginazione guidata per “riconsolidare” i ricordi emotivi alla base delle credenze di base. Nell’Imagery Rescripting, si induce il paziente, in stato di rilassamento, a visualizzare una scena dell’infanzia particolarmente collegata alla credenza negativa (es. il momento in cui da bambino si è sentito rifiutato o umiliato). Si chiede poi al paziente di immaginare di entrare nella scena con le risorse attuali (o talvolta che il terapeuta stesso entri nella scena) per modificarne il finale in senso emotivamente riparativo. Ad esempio, una paziente che da bambina veniva ripetutamente criticata dal padre potrebbe immaginare di intervenire da adulta nella scena proteggendo la “sé bambina” dalle critiche, dicendo al padre quanto quel comportamento sia ingiusto, e rassicurando la bambina che non merita quelle parole. Questo esercizio, ripetuto, aiuta a “installare” a livello profondo un nuovo messaggio: “non ero io a non andare bene, erano le circostanze a essere sbagliate”. Il Rescripting permette di soddisfare retrospettivamente i bisogni emotivi frustrati (protezione, amore, approvazione) e di dare alla parte bambina del paziente un’esperienza correttiva, sostenuta dall’adulto che è ora. È un metodo potente per scardinare la credenza di base originaria, perché agisce là dove si è formata – nell’emozione del bambino. Spesso, dopo alcune sessioni di imagery, i pazienti riferiscono di sentire meno viva la convinzione di indegnità o di inettitudine, quasi come se la “ferita” iniziasse a rimarginarsi.
Il chairwork (lavoro con le sedie) è un’altra tecnica schema-terapeutica utile soprattutto per affrontare il genitore interiorizzato critico. Si pongono due sedie: su una il paziente interpreta la voce del proprio Sé vulnerabile (il “bambino ferito” che incarna la credenza “sono sbagliato”), sull’altra interpreta la voce del Genitore Critico interiorizzato (che sputa giudizi: “Sei patetico, non combinerei nulla, fai schifo”). Con la guida del terapeuta, si inscena un dialogo tra queste parti: l’obiettivo è far emergere chiaramente i messaggi distruttivi che alimentano la credenza di base e poi aiutare il paziente a reagire ad essi in modo nuovo. Spesso il terapeuta o il paziente stesso “interviene” difendendo il Sé vulnerabile: ad esempio, parlando dalla sedia del Healthy Adult (l’adulto sano), il paziente può rispondere al Critico “Basta! Non è vero che non valgo niente. Sto facendo del mio meglio e meritavo amore, anche se da piccolo non l’ho ricevuto.”. Questo esercizio dà voce attiva alla confutazione della credenza di indegnità/inadeguatezza, non solo a livello intellettuale ma emozionale. Il paziente prova direttamente l’emozione di opposizione alla vecchia voce interna e impara a coltivare un atteggiamento più compassionevole e realistico verso di sé.
Soddisfazione dei bisogni emotivi e cambiamento comportamentale: Nelle fasi avanzate, la Schema Therapy guida il paziente a sperimentare nuovi modi di soddisfare i propri bisogni nelle relazioni attuali, rompendo gli schemi comportamentali disfunzionali che mantenevano le credenze di base. Ad esempio, un paziente con schema di inadeguatezza (Fallimento) verrà incoraggiato a perseguire obiettivi graduali di autonomia e successo, affrontando compiti evitati e tollerando l’eventuale ansia, così da aggiornare la percezione di sé come capace. Parallelamente, un paziente con schema di indegnità (Difettosità) verrà incoraggiato a esprimere assertivamente bisogni e opinioni in una relazione significativa, in modo da fare l’esperienza che l’altro può accoglierlo senza disprezzo. Si tratta di passare dal capire concettualmente di “valere” al sentirlo nella pratica quotidiana. Il terapeuta funge da coach in questo processo: prepara il paziente alle situazioni, lo aiuta a gestire le emozioni intense (paura, vergogna) che emergono quando rompe i suoi soliti copioni, e lo sostiene nel trarre dalle nuove esperienze un nuovo significato di sé. Ad esempio, dopo che un paziente dipendente affettivo è riuscito a dire “no” a una richiesta irragionevole del partner (cosa per lui difficilissima per paura di deludere e perdere l’amore), il terapeuta lo aiuterà a consolidare l’apprendimento positivo: “Hai visto? Hai espresso un tuo bisogno e il tuo partner ti rispetta ancora; questo contraddice l’idea che dovevi annullarti per essere accettato”.
In sintesi, la Schema Therapy lavora sia sul piano cognitivo (dando un senso alle credenze e collegandole alla storia di vita), sia su quello emotivo/esperienziale (sanando le ferite originarie con tecniche attive), sia su quello comportamentale (sviluppando nuove abilità di coping). Questo approccio integrato risulta molto efficace nei casi in cui le credenze di base sono radicate e resistenti, come nei disturbi di personalità del Cluster C (evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo), dove l’obiettivo è aiutare il paziente a soddisfare in modo adattivo i propri bisogni emotivi di base riducendo vergogna e ansia nelle relazioni.
Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) – La TMI è un approccio recente sviluppato in Italia (Dimaggio, Semerari e colleghi) per il trattamento dei disturbi di personalità, che pone particolare enfasi sulla comprensione e modificazione delle motivazioni relazionali implicite guidate da schemi di sé disfunzionali. In altre parole, la TMI aiuta il paziente a divenire consapevole di come le sue credenze di base negative orientino, a livello inconscio, i suoi desideri e timori interpersonali, generando cicli di rapporto rigidi e problematici.
Il lavoro terapeutico in TMI inizia col mappare i cicli interpersonali caratteristici del paziente. Il terapeuta invita il paziente a raccontare episodi concreti di relazione (con il partner, con amici, sul lavoro) in cui ha provato emozioni intense o ha messo in atto comportamenti problematici. Durante questo racconto, si esplora cosa il paziente desiderava dall’altro in quella situazione, cosa temeva, come ha interpretato l’atteggiamento altrui e come ha reagito. Spesso, dietro questi episodi emergono proprio le credenze di base: ad esempio, un paziente può scoprire che in un litigio con l’amico desiderava rassicurazioni di essere importante per lui (desiderio di attaccamento) ma temeva di essere rifiutato perché “non interessante abbastanza” (credenza di indegnità), e quindi ha reagito con rabbia e gelo per difendersi. Il terapeuta TMI aiuta a dare un nome a queste dinamiche implicite, rendendo espliciti sia gli schemi di sé che le aspettative sull’altro. Come descrive Carcione, “il terapeuta raccoglie episodi narrativi relazionali esplorando insieme cosa il soggetto abbia provato e pensato in quel momento, dando dei nomi alle emozioni”. L’obiettivo iniziale è rendere il paziente consapevole del proprio copione interpersonale abituale: ad esempio riconoscere “io tendo a volere vicinanza, però penso di non meritarla, così mi metto in disparte per non essere respinto”. Questa presa di coscienza già di per sé indebolisce il potere della credenza implicita, perché il paziente inizia a vederla come una parte di sé e non come la realtà oggettiva delle cose.
Successivamente, la TMI lavora per rompere il ciclo disfunzionale: il terapeuta e il paziente collaborano per generare una spiegazione alternativa delle intenzioni altrui e per sperimentare risposte differenti. Ad esempio, tornando al caso, il terapeuta potrebbe proporre al paziente: “E se quell’amico non volesse davvero allontanarti ma fosse lui stesso insicuro? Cosa succederebbe se invece di evitare chiarissi come ti sei sentito?”. Si incoraggia quindi il paziente a provare, nelle relazioni reali, comportamenti nuovi (come chiedere supporto invece di isolarsi, o esprimere disaccordo invece di compiacere) e poi si analizzano insieme i risultati. Spesso il paziente scopre con sorpresa che l’esito non è catastrofico come la sua credenza temeva: l’amico non lo ha deriso ma ha offerto rassicurazione, il partner non lo ha lasciato perché ha visto la sua vulnerabilità, ecc. Queste esperienze correttive sono essenziali per ristrutturare la credenza implicita: gradualmente, la previsione automatica “se mi mostro per come sono, verrò rifiutato” perde credibilità. La TMI presta molta attenzione anche a ciò che accade nel qui-e-ora della relazione terapeutica: spesso i pazienti attivano col terapeuta lo stesso schema (ad esempio possono temere il giudizio del terapeuta e quindi mostrarsi molto “perfetti” in seduta). Il terapeuta TMI utilizza questo materiale immediato per evidenziare il pattern (“Ho notato che ha esitato a dirmi che non ha fatto l’esercizio: forse temeva che la giudicassi severamente, come se il nostro rapporto dipendesse dalla sua prestazione impeccabile?”). Con tatto, il terapeuta offre un’esperienza diversa – ad esempio reagendo con accettazione anche all’“imperfezione” del paziente – in modo da smentire in vivo la credenza di base (“posso sbagliare e il terapeuta non mi disprezza né mi abbandona”).
Un elemento chiave della TMI è sviluppare la metacognizione del paziente, ossia la capacità di riflettere sui propri stati mentali e riconoscerli come tali. Ciò significa aiutare la persona a pensare “sto credendo in questo momento di non valere, ma è un mio schema, non un fatto comprovato”. Insegnando al paziente a identificare le proprie credenze maladattive come ipotesi e non verità, la TMI favorisce una sana distanza critica da esse. Ad esempio, il paziente impara a dire: “quando qualcuno mi critica, io mi racconto che non valgo niente, ma so che è la mia solita autocritica estrema, non è l’unica lettura possibile”. Questo passaggio da una conoscenza implicita subita a una conoscenza esplicita osservata è liberatorio: il paziente recupera margine di scelta e di controllo sulle proprie reazioni. Nel caso di prima, invece di reagire automaticamente con rabbia o ritiro all’amico, la persona può cogliere il momento in cui scatta la voce interna “non gli importa nulla di te” e decidere di non darla per buona, provando magari a chiedere spiegazioni sincere all’altro.
Sia la Schema Therapy che la TMI, pur con tecniche differenti, condividono un principio: integrare il livello cognitivo esplicito con quello emotivo implicito. In altre parole, non basta che il paziente dica a parole “lo so che teoricamente non sono senza valore”; occorre che a livello esperienziale “senta” davvero di avere valore e di essere amabile. Per ottenere questo risultato, la terapia deve creare occasioni in cui il paziente vive un’esperienza diversa (in seduta e fuori) e la collega consapevolmente alla trasformazione della credenza. Ad esempio, un paziente con credenza “sono un debole” che inizia a fare piccoli atti di assertività e scopre che gli altri lo rispettano di più, deve poi elaborare attivamente il messaggio “forse non sono così debole come pensavo, posso farmi valere”. Il terapeuta funge da facilitatore di questo apprendimento, “tenendo insieme” le nuove esperienze con la ristrutturazione del significato.
Esempi clinici applicativi – Consideriamo brevemente un paio di esempi pratici di intervento:
Caso “Indegnità”: Marco, 30 anni, in terapia riferisce una costante sensazione di non meritare l’affetto della sua compagna. Attraverso il dialogo socratico emerge la credenza di base: “Non sono degno di essere amato; prima o poi lei mi lascerà per qualcuno migliore”. Il terapeuta esplora l’origine: genitori anaffettivi, esigenti sul rendimento scolastico, poche dimostrazioni di affetto. In Schema Therapy si identificano gli schemi di Difettosità e Standard Severi. Si decide di lavorare sull’infanzia: in imagery, Marco rivede sé stesso bambino mentre cerca di ottenere l’attenzione del padre senza successo; nel rescripting il terapeuta (immaginato) entra nella scena, conforta il piccolo Marco dicendogli che non è colpa sua se papà è distante, che lui è un bravo bambino e merita di essere amato. Marco si commuove: è la prima volta che sente, emotivamente, che forse non era lui ad essere sbagliato. Nei giorni seguenti riferisce di sentirsi più leggero. In parallelo, in TMI si analizza un recente litigio con la compagna: Marco ammette di essersi chiuso dopo che lei è uscita con amici senza di lui, pensando “ecco, non mi ama davvero”. Il terapeuta lo aiuta a vedere che questo è il suo solito copione (desiderio di vicinanza + paura di non essere importante) e lo incoraggia a provare un approccio differente: invece di ritirarsi risentito, esprimere alla compagna che la sua insicurezza nasce dai propri timori, non da mancanza di fiducia in lei. Marco segue il suggerimento: con sua sorpresa, la compagna lo rassicura calorosamente, e insieme stabiliscono alcune “rassicurazioni” reciproche (ad esempio, lei gli manda qualche messaggio affettuoso quando esce con amici, lui lavora sulla propria autonomia per non dipendere solo da lei). In seduta si consolida questa nuova esperienza: “Lei non mi ha abbandonato quando ho mostrato il mio bisogno; forse il mio valore per lei c’è davvero”. Pian piano, la credenza di indegnità di Marco perde presa: continua ad emergere sotto stress, ma ora Marco la riconosce (“ecco di nuovo la sensazione di non meritare…”) e riesce a non farsi sopraffare, ricordando le esperienze positive fatte e utilizzando tecniche di auto-rassicurazione imparate (ad es. scriversi su un biglietto alcune delle cose che la compagna apprezza di lui, e rileggerle nei momenti di dubbio). Dopo un anno di terapia integrata, Marco riferisce che “una vocina dentro ogni tanto mi dice che non valgo, ma è molto più debole, e soprattutto adesso so che non è tutta la verità”. La sua relazione di coppia è molto migliorata: litiga meno e chiede più apertamente ciò di cui ha bisogno, sentendosi più sicuro dell’amore ricambiato.
Caso “Inadeguatezza”: Lucia, 40 anni, manager, viene in terapia per l’ansia paralizzante che prova sul lavoro e il senso di essere un’“impostora”. La credenza di base emersa è: “Sono incompetente, prima o poi tutti se ne accorgeranno”. La sua storia rivela genitori estremamente critici sul piano del successo (madre insegnante molto esigente, padre che lodava solo i risultati eccellenti). Lucia ricorda di essersi sentita “un fallimento” già a 8 anni quando prese un voto basso in matematica e i genitori reagirono freddamente. In terapia cognitiva si lavora sulle evidenze: nonostante Lucia abbia oggettivamente molti successi (laurea, promozioni, stima dei colleghi), lei li sminuisce attribuendoli alla fortuna. Il terapeuta fa compilare una tabella con tutti i feedback positivi ricevuti e le competenze dimostrate; inizialmente Lucia fatica, poi riconosce di aver trascurato molti segnali del suo valore. Si prosegue con esperimenti: ad esempio, Lucia teme di parlare alle riunioni perché “dirò sicuramente una stupidaggine”. Il compito concordato è intervenire almeno una volta in riunione con un proprio contributo e registrare le reazioni. Lucia prova – con enorme ansia – e scopre che i colleghi accolgono bene il suo intervento e che nulla di terribile accade. In seduta analizzano: la credenza “dirò stupidaggini” era eccessiva. Intanto, con tecniche di Schema Therapy, emergono ricordi di frasi severe di sua madre (“Potevi fare meglio, non ti impegnare non vai da nessuna parte”). Si utilizza il dialogo con il genitore interiorizzato: il terapeuta siede su una sedia impersonando la madre critica e pronuncia alcune di quelle frasi; Lucia, sull’altra sedia, impara gradualmente a reagire difendendo la sé bambina: “Basta, mamma! Ero solo una bambina… Non avevi diritto di farmi sentire stupida. Io ero brava, anche se non perfetta!”. Questo esercizio, ripetuto più volte, aiuta Lucia a sentirsi arrabbiata verso quella voce interna anziché schiacciata: inizia a distinguere la sua valutazione di sé da quella della madre interiorizzata. Dopo alcuni mesi, Lucia riferisce di aver affrontato una presentazione importante senza sentirsi un completo disastro: “ero agitata, ma dentro di me una parte diceva: posso farcela, ho cose intelligenti da dire”. La credenza “sono incompetente” sta lasciando spazio a una convinzione più equilibrata: “a volte posso essere insicura, ma ho anche capacità e posso migliorare con l’esperienza”.
Evidenze e integrazione degli approcci – Le strategie descritte mostrano come diverse prospettive terapeutiche possano convergere sul lavoro con le credenze di base. L’efficacia di questi interventi è supportata da ricerche recenti. Una rassegna del 2023 ha indicato, ad esempio, che la terapia cognitivo-comportamentale centrata sui pensieri disfunzionali e sulla regolazione emotiva è un trattamento promettente per condizioni legate alla dipendenza affettiva e bassa autostima. Ciò significa che aiutare il paziente a ristrutturare credenze di scarso valore personale e contemporaneamente insegnargli abilità per gestire l’ansia da abbandono porta a miglioramenti clinici significativi. Anche la Schema Therapy ha accumulato evidenze positive nel trattamento di schemi di vergogna e inadeguatezza cronici, mostrando risultati incoraggianti in disturbi di personalità una volta considerati difficili da trattare (come il disturbo evitante e dipendente) grazie al focus sulle esperienze emotive correttive.
In pratica, i terapeuti spesso integrano tecniche multiple adattandole al caso specifico. Ad esempio, nel caso di Marco sopra descritto, sono state combinate tecniche cognitive standard (monitoraggio dei pensieri, ristrutturazione delle interpretazioni errate), tecniche esperienziali di Schema Therapy (imagery con il sé bambino) e interventi metacognitivi-interpersonali (analisi del ciclo interpersonale con la compagna). Questa flessibilità permette di colpire la credenza di base su più fronti: cognitivo (capire che è illogica o esagerata), emotivo (sentire un nuovo messaggio più positivo) e comportamentale (vivere esperienze disconfermanti).
Infine, una menzione va fatta alla coltivazione della compassione verso sé stessi, approccio promosso dalla Compassion-Focused Therapy di Paul Gilbert e spesso integrato nelle terapie cognitive per la vergogna. Insegnare al paziente a sviluppare una voce interiore compassionevole che contrasti la crudele autocritica può essere molto utile per chi lotta con credenze di indegnità. Ad esempio, tramite esercizi di imagery compassionevole, il paziente immagina una figura saggia e benevola (o sé stesso in versione ideale compassionevole) che gli rivolge parole di incoraggiamento e perdono, aiutandolo a lenire il senso di vergogna. Questi esercizi, se affiancati alla ristrutturazione cognitiva, rafforzano il nuovo apprendimento emotivo: la persona comincia a sentire a livello del cuore che merita gentilezza e comprensione, anche quando commette errori o non è perfetta.
In conclusione, le credenze di base su di sé – inadeguatezza e indegnità in primis – rappresentano dei pilastri nascosti ma potenti della personalità e del funzionamento emotivo. Riconoscerle e lavorarci sopra è un passaggio imprescindibile in molte psicoterapie, perché significa agire alla radice del problema e non solo sui sintomi superficiali. Come abbiamo visto, i modelli cognitivi e relazionali moderni offrono strumenti efficaci per trasformare queste convinzioni: dal far emergere la storia di come si sono formate (dando un senso al perché oggi la persona pensa così di sé), al fornire esperienze nuove che insegnino al paziente una diversa verità su di sé, più equilibrata e compassionevole. Il fine ultimo è che l’individuo possa gradualmente interiorizzare una credenza di base positiva o realistica – ad esempio “sono una persona con valore, con punti di forza e debolezze come tutti, meritevole di rispetto e amore” – e che questa nuova convinzione diventi il suo nuovo fondamento, portandolo a vivere con maggiore fiducia in sé, autenticità nelle relazioni e benessere psicologico.
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